Del tempo lontano in cui le estati erano lunghe tanto da non finire mai la mente ritiene soltanto brandelli e sprazzi di ricordi. Situazioni, cose e persone che ciclicamente tornano ad abitare i pensieri nella notte. Ombre ostinate e benigne che stanno lì come a ricordarci che davvero siamo fatti della stessa materia dei sogni. In quelle estati antiche e quasi mitologiche cerimoniale pressoché quotidiano era il fare la spesa. La qual cosa per me si sostanziava (visto che il concetto di supermercato non era ancora troppo familiare) in un rituale passaggio che attraversava tre negozi identificati direttamente con il nome dei commercianti loro proprietari. Per me fare la spesa voleva dire quindi passare da Nadia (frutta), da Giulia (macelleria) e da Fiore (bazar con tutto il resto di quanto potesse servire). Tutti sulla stessa via, a pochissima distanza tra di loro. Procedendo dalla mia direzione Nadia veniva per prima, Fiore e Giulia, praticamente l'uno di fronte all'altra, potevano essere affrontati indifferentemente prima l'uno o prima l'altra a seconda della dimensione della fila che si vedeva. Ma la prassi era di andare prima da Giulia e poi, per ultimo, da Fiore che era famosissimo per la cura estrema, la minuziosità che metteva nel servire le persone, cosa apprezzabilissima ma che faceva di lui il negoziante certamente più lento di tutti e a volte addirittura esasperante. Un milione di cose potrei scrivere sugli incontri quotidiani con queste figure che in qualche modo facevano parte di una specie di parentado acquisito, vista l'assiduità con cui ci si frequentava e forse un giorno lo farò. Oggi però voglio soffermarmi su una persona che era al margine di tutto questo. Spesso stava seduto fuori dal negozio di Nadia, la fruttivendola. Coppola in testa, occhiali scuri, baffi e un'espressione eternamente perduta. Guardava l'altro lato della strada come se ci fosse, di là, un orizzonte infinito invece del muretto azzurrino e scrostato della palazzina di fronte. Era, dicevano, o io ho sempre pensato che fosse, il padre di Nadia. Non so niente o quasi di lui. So solo che ogni volta che passavo, insieme a mio fratello più piccolo, dal marciapiede dove lui era seduto, ci fermava e poi, guardandoci con attenzione, scandiva: "Andrea … e Marco", indicandoci. E quando gli dicevo che sì, si era ricordato bene, si apriva ad un sorriso che illuminava per un istante quel viso dall'espressione sempre uguale. Ogni mattina noi passavamo di lì e questo episodio si ripeteva identico. "Andrea … e Marco". Niente altro. Noi lo sapevamo e per tenerezza passavamo apposta da lui, così che ci vedesse e potesse fermarci e dirci: "Andrea … e Marco, vero?". Parlava poco, quasi per niente. Solo qualche volta diceva, riusciva a dire, qualcosa di più. "Io sono stupido", disse un giorno, con un'espressione che non posso dimenticare. "Prima non ero così… la guerra… e adesso sono stupido" e poi, subito dopo: "Andrea … e Marco". Sì, ti sei ricordato bene. Ce l'hai fatta ancora una volta. E il sorriso che faceva ti apriva il cuore. E ti veniva di fargli una carezza, a quell'uomo grande e grosso, con la coppola, i baffi e gli occhiali color marrone scuro. Ecco. Io la guerra l'ho conosciuta negli occhi di quell'uomo di cui non so nulla o quasi. L'ho vista nell'espressione perduta di chi ha vissuto cose che la mente si rifiuta di catalogare. Nello sguardo attonito rivolto a quel muretto scrostato dove, forse, rivedeva ciò che non si può immaginare. Ho visto quel che può fare ad un essere umano buono e tenero. L'ho vista. E ne ho avuto orrore.
Parole
giovedì 29 giugno 2023
martedì 27 dicembre 2022
Black Beauty
Correvano gli anni 90. Quell'estate avevo partecipato, come bracciante agricolo, alla vendemmia e con i quattro spiccioli ricavati ero corso subito a comprarmi un amplificatore per la mia chitarra elettrica. Una Eko imitazione della “Gibson SG” a cui avevo modificato i pick up perché suonasse un po’ meglio di come faceva. Era il mio primo amplificatore, un bel “Peavey Bandit 75”. Avevo da poco iniziato a impartire lezioni di chitarra in una scuola di musica privata. Insegnavo in genere i rudimenti della chitarra classica a bambini e ragazzi. La classe di chitarra contemporanea però era vicino alla mia e ogni tanto facevo lezione pure lì nel caso fosse servito. Anche con la chitarra elettrica un po’ ci sapevo fare. Giunse lì in quel periodo un ragazzo che doveva imparare a suonare. Avrà avuto 15 anni o giù di lì. La prima lezione di chitarra contemporanea la feci io perché il titolare non c’era. Arrivò con la chitarra nuova, che i genitori gli avevano comprato perché iniziasse la carriera. Da una anonima custodia semirigida sguainò fiammante una clamorosa Gibson Les Paul custom. Ora, per chi non lo sapesse, la Gibson LPC specie la versione che aveva lui, detta Black Beauty, è una chitarra leggendaria, quanto di più fantastico un chitarrista possa avere tra le mani. Fu un colpo. Mi accorsi immediatamente delle iniquità, delle ingiustizie di cui il mondo era dispensatore. Quel tipo come primo strumento aveva in mano una chitarra che io non mi sarei potuto permettere manco nei sogni (neppure adesso - a dire il vero - visto che oggi il suo prezzo viaggia tra i 5000 e i 6000 euro). Il mio primo sentimento, lo confesso, fu di stizza. È come se ad uno che non ha neppure il foglio rosa il paparino gli portasse le chiavi di una Lamborghini per fargli fare pratica. Cercai di contenermi. Iniziammo la lezione e vidi come goffamente le mani di quel ragazzo arrancavano tra i capotasti. Pensai un pensiero. Pensai che chi gli aveva comprato quella meraviglia non aveva fatto il suo bene. Aveva proiettato in lui i suoi desideri, lo aveva investito di un dovere. Egli doveva essere all’altezza dello strumento fantastico che gli era stato donato (me lo vedevo il genitore chiedere con orgoglio nel negozio di strumenti la chitarra migliore che c’era sul mercato per suo figlio e il commerciante che non vedeva l’ora di piazzargli in mano la più costosa). Di più, lo avevano privato di una cosa fondamentale. Del desiderio. Io con la mia sgangherata Eko (che ancora adesso conservo) non avrei potuto permettermi tanto ma avrei potuto desiderare di giungere a possedere qualcosa di così bello, di così iconico. Avrei potuto migliorarmi; guardare a quel punto come a un faro lontano che mi avrebbe spinto in una precisa direzione. Lui, che in fondo, dopo averlo conosciuto meglio, non era affatto un cattivo ragazzo né un montato, che cosa avrebbe potuto desiderare? Lui avrebbe dovuto soltanto ringraziare. Non lo fece. Dopo un po’ di tempo smise di suonare ritirandosi dalla scuola. La musica non era nel suo destino. Ogni tanto ripenso a quella chitarra. Chissà che fine avrà fatto. Forse sarà stata venduta a qualcuno che l’avrà usata per quel che vale. O forse il suo destino sarà stato peggiore. Sarà stata dimenticata. Una Lamborghini in garage. Una meraviglia impolverata, costruita per mani virtuose, con le corde arrugginite, riposta per sempre dentro qualche armadio.
venerdì 14 settembre 2018
Io sono per l'Europa (e vi spiego perché)
venerdì 13 luglio 2018
Contro la “lezione di prova”
giovedì 26 dicembre 2013
Metafisica delle cose
sabato 2 novembre 2013
Lame rosse
"Ducunt volentem fata, nolentem trahunt"
Seneca, Epist, 107, 10.
Ed eccole, finalmente, sulla sommità del canalone di ghiaia bianca, stagliarsi improvvise le guglie improbabili delle lame rosse. Cesellate in migliaia di anni di erosione e di lavorìo delle acque e del vento. Sembrano piantate lì da un mago burlone che ha voluto incistare nello spazio boschivo consueto e familiare delle nostre montagne un frammento di terra spostato da luoghi lontani ed esotici, monoliti anatolici o dune sahariane.
Opportunamente nascoste allo schiamazzo ferragostano che aggroviglia masse umane qualche centinaio di metri più a valle, e che da lassù più non si ode, non sono certo inaccessibili, ma neppure alla portata di chi non voglia render loro un giusto tributo in fatica e sudore.
Me ne sono accorto alla prima rampa del sentiero che dalla diga del lago di Fiastra si inerpica verso l'alto. Una salita che da ragazzino avrei affrontato spavaldamente, quasi di corsa, e che ora invece mi ha presentato il conto spezzandomi il fiato e mostrando impietosamente il mio "fuori allenamento".
Comunque, stretti i denti e superato l'immediato empasse, le gambe hanno cominciato via via a carburare, gli scarponi a mordere il terreno con più forza, i muscoli a sciogliersi e le piante dei piedi ad abituarsi al fondo pietroso del percorso. Un po' più di un'ora di cammino, neppure troppo aspro, per giungere al canalone. Una lingua sassosa bianca e scoscesa sulla cui sommità ecco apparire le guglie rosse.
E ti chiedi come sia possibile che stiano lì, enormi e fragili, che ti sembra di poterle sbriciolare con un semplice cucchiaio, che ti sembra che alla prossima pioggia possano scomparire in una colata di fanghiglia rosso arancio.
E ti chiedi quale sia la forza che permette loro di sfidare il vento e il tempo, di resistere caparbie in barba alla furia degli elementi.
Poiché, razionalmente, non potrebbero esistere. La materia di cui sono fatte è inconsistente, un agglomerato friabile di pietrisco sottile e polvere rossiccia che forma un castello dalle torri di sabbia alte decine di metri che sembra in ogni istante pronto a dissolversi per sempre nell'informe.
Pure le lame rosse permangono in quel canalone da tempo immemorabile.
Nella loro immobilità silenziosa e arcana è forse nascosta una forza che per essere scorta pretende un punto di vista diverso e faticoso.
Forse quelle forme, lungi dal vivere per sfida, esistono proprio perché in perfetto accordo con quella pioggia e quelle correnti che sfiorandone, carezzandone le delicate figure e imprimendo in loro quelle eleganti e ardite volute, non le distruggono. Esse, forse, sono così perché così vuole il vento. Esistono nel loro tempo, infinitamente più lungo, dilatato, del nostro - cui ci è dato tuttavia il privilegio di scorgerle - apparentemente immobili e ieratiche ma invece in incessante trasformazione.
Due mondi opposti si scrutano quando un uomo affaticato, come lo sono stato io ieri, giunge al cospetto di quelle sculture metafisiche. Il nostro mondo di uomini, alla continua ricerca di un posto in una natura alla quale, per tracotanza o idiozia, sentiamo di non appartenere del tutto, e il mondo delle cose docili al loro destino, perfettamente aderenti al volere della natura sì da farsi opere d'arte del vento e delle acque.
Due mondi e due tempi, incommensurabili e un'unica esistenza dalle forme effimere e cangianti. Mi risuonano alla mente le parole gigantesche di Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell’aria, in aria sottile. E, come l’edificio senza basi di questa visione, anche gli alti torrioni incoronati di nuvole, e i sontuosi palazzi, ed i templi solenni, e questo stesso globo immenso, con le inerenti sostanze, dovranno dissolversi. E, come l’irreale spettacolo appena svanito, svaniranno senza lasciare traccia di sé. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno»1.
Al ritorno verso casa la luna, ignara, squarciando le nubi che veloci transitavano sul mare, mostrava il suo sguardo indifferente. Era come quello delle fragili lame di pietrisco rosso che sanno che l'unica libertà consiste nel consentire che il destino compia il suo ineffabile corso, nel lasciarsi modellare da esso e farsi così, nel tempo che ci è concesso, opere d'arte.
1) W.Shakespeare. La Tempesta, atto IV°, sc. I
lunedì 16 settembre 2013
Uno sguardo sul ponte
E' domenica pomeriggio. Dalla finestra della camera da letto di casa mia lo squarcio tra gli spigoli di due palazzi lascia correre lo sguardo sul ponte sopra la ferrovia, che da poco ha ripreso a funzionare, sebbene con parsimonia, e, ancora più lontano, sulle colline che sovrastano Ancona. E' un pomeriggio senza alti né bassi, dovrei dire di relax, dopo alcune settimane convulse. Ora sono in quiete. Comincio via via a liberarmi dei fantasmi e degli incubi dell'organizzazione e a concedermi spazi di pensiero, di contemplazione. Mentre scrivo una brezza leggera penetra dalla finestra aperta e mi carezza delicatamente la pelle. Getto ancora lo sguardo di là, in quello squarcio anonimo su un frammento di città sonnolenta. Una cane abbaia insistentemente da qualche parte, il cielo plumbeo prelude forse ad uno scroscio che sarebbe comunque lungi dal calmierare l'afa estiva. Nulla pare che sia in vita. Solo suoni arrivano a dimostrarmi che, anche ora, qualcuno, inquieto, abita la città. Il pianto lontano di un bimbo, le parole indistinguibili di un uomo adulto, le auto che rare scorrono lungo le vie bruciate dal caldo, il suono ancora più sottile del vento torrido. Un universo rarefatto ed indifferente che pure racchiude in sé tante vite, forse tutte le vite possibili. Penso che ogni atomo, ogni singola particella, ogni incessante fluttuazione energetica che compone la trama intima di tutto ciò che esiste, me compreso, ci ha preceduti da sempre e proseguirà ad esserci per sempre incurante di noi. Niente scompare mai, tutto tramuta in ininterrotte e multiformi organizzazioni e nel vortice di vita che sconfina ognuna di esse è, forse, un segnale. Se getto ancora lo sguardo dalla finestra qualcosa, impercettibilmente si è modificato, là c'è un uomo che porta a passeggio il suo cane e che prima non c'era, su quel balcone il vento ha ribaltato uno scatolone e si diverte a scagliarlo ostinato contro un parapetto, ogni automobile che passa, ogni insetto, ogni leggero soffione trasportato dal vento porta con sé una storia breve o lunga. E' protagonista di incontri, di metamorfosi, del suo frammento di senso. Quale sarà il mio? Forse che ogni uomo è destinato a chiedersi per sempre quale sia il suo posto nel mondo, quale l'essenza di questo intreccio inestricabile di destini e di storie, di bellezza e di orrore che è la vita. Così, solo con me stesso, guardando dalla finestra un paesaggio senza splendore, ho la sensazione che qualcosa sia pur possibile capire, ma quando la mente si avvicina a sfiorare la verità essa si ritrae in un abisso ancora più vasto e terribile.
Il vento, che prima mi percuoteva, si è calmato ora e sembra che un rapido raggio di sole si faccia strada tra le nubi incoerenti di questo pomeriggio in cui c'è solo il mio sguardo a cercare qualcosa tra pilastri di cemento e automobili.
Nell'altra stanza sento la mia dolce compagna ripetere ad alta voce le parole di Freud, immersa nello studio matto e disperatissimo dei suoi ultimi esami. Ed io sono qui. Tutto mi appare realmente irreale.
Mi sono messo a scrivere con niente da dire. Forse le parole non sono adatte a dire alcunché, forse tutto il senso sta nel silenzio, nell'inesprimibile che ci sforziamo ottusamente di far parlare.