lunedì 16 settembre 2013

Uno sguardo sul ponte

13 luglio 2008

E' domenica pomeriggio. Dalla finestra della camera da letto di casa mia lo squarcio tra gli spigoli di due palazzi lascia correre lo sguardo sul ponte sopra la ferrovia, che da poco ha ripreso a funzionare, sebbene con parsimonia, e, ancora più lontano, sulle colline che sovrastano Ancona. E' un pomeriggio senza alti né bassi, dovrei dire di relax, dopo alcune settimane convulse. Ora sono in quiete. Comincio via via a liberarmi dei fantasmi e degli incubi dell'organizzazione e a concedermi spazi di pensiero, di contemplazione. Mentre scrivo una brezza leggera penetra dalla finestra aperta e mi carezza delicatamente la pelle. Getto ancora lo sguardo di là, in quello squarcio anonimo su un frammento di città sonnolenta. Una cane abbaia insistentemente da qualche parte, il cielo plumbeo prelude forse ad uno scroscio che sarebbe comunque lungi dal calmierare l'afa estiva. Nulla pare che sia in vita. Solo suoni arrivano a dimostrarmi che, anche ora, qualcuno, inquieto, abita la città. Il pianto lontano di un bimbo, le parole indistinguibili di un uomo adulto, le auto che rare scorrono lungo le vie bruciate dal caldo, il suono ancora più sottile del vento torrido. Un universo rarefatto ed indifferente che pure racchiude in sé tante vite, forse tutte le vite possibili. Penso che ogni  atomo, ogni singola particella, ogni incessante fluttuazione energetica che compone la trama intima di tutto ciò che esiste, me compreso, ci ha preceduti da sempre e proseguirà ad esserci per sempre incurante di noi. Niente scompare mai, tutto tramuta in ininterrotte e multiformi organizzazioni e nel vortice di vita che sconfina ognuna di esse è, forse, un segnale. Se getto ancora lo sguardo dalla finestra qualcosa, impercettibilmente si è modificato, là c'è un uomo che porta a passeggio il suo cane e che prima non c'era, su quel balcone il vento ha ribaltato uno scatolone e si diverte a scagliarlo ostinato contro un parapetto, ogni automobile che passa, ogni insetto, ogni leggero soffione trasportato dal vento porta con sé una storia breve o lunga. E' protagonista di incontri, di metamorfosi, del suo frammento di senso. Quale sarà il mio? Forse che ogni uomo è destinato a chiedersi per sempre quale sia il suo posto nel mondo, quale l'essenza di questo intreccio inestricabile di destini e di storie, di bellezza e di orrore che è la vita. Così, solo con me stesso, guardando dalla finestra un paesaggio senza splendore, ho la sensazione che qualcosa sia  pur possibile capire, ma quando la mente si avvicina a sfiorare la verità essa si ritrae in un abisso ancora più vasto e terribile.
Il vento, che prima mi percuoteva, si è calmato ora e sembra che un rapido raggio di sole si faccia strada tra le nubi incoerenti di questo pomeriggio in cui c'è solo il mio sguardo a cercare qualcosa tra pilastri di cemento e automobili.
Nell'altra stanza sento la mia dolce compagna ripetere ad alta voce le parole di Freud, immersa nello studio matto e disperatissimo dei suoi ultimi esami. Ed io sono qui. Tutto mi appare realmente irreale.
Mi sono messo a scrivere con niente da dire. Forse le parole non sono adatte a dire alcunché, forse tutto il senso sta nel silenzio, nell'inesprimibile che ci sforziamo ottusamente di far parlare.

mercoledì 4 settembre 2013

I nuovi mostri

Questo testo è stato scritto il 21 aprile 2008

Inizierò dicendo banalmente che i bisogni primari (mangiare, bere, ecc..) sono essenziali per ogni essere vivente. Per un insetto o un batterio o una forma di vita ancora più elementare. Non sono essenziali per noi esseri umani più di quanto lo siano per qualunque altra forma di vita di qualunque specie. Ma noi sentiamo di essere distinti dagli altri esseri viventi. E davvero lo siamo. Ci distinguiamo dal resto del mondo animale certamente per le capacità intellettuali, che comprendono la nostra peculiare capacità di giudicare. Di vedere nelle cose, ad esempio, la bellezza, o l'orrore. Un essere umano sente che fare un'esperienza estetica, in qualche maniera, lo accresce. Ma in cosa lo accresce? Precisamente in umanità. Lo rende ancora più umano. Meno bestiale.
Insomma se facciamo arte, e se ne fruiamo, è perché apparteniamo alla razza umana. Questo semplice assunto parrebbe addirittura banale se non fosse per una considerazione accessoria che va fatta e che potrà sembrare un po' "forte"; cioè che l'umanità degli appartenenti alla razza umana non è scontata. Va nutrita opportunamente. Ad essa è associata una sensibilità che ci appartiene soltanto come dato potenziale. L'esperienza estetica - l'arte fatta o fruita - è fondamentale per l'uomo, fonda cioè la base della sua umanità che però non è essenziale alla sussistenza in vita e quindi si può anche perdere. Si può dunque dare una razza umana disumanizzata, ciò, secondo me, non solo è possibile, ma anche in progressiva realizzazione. Un esempio. Qualche sera fa sono stato ad un concerto. Un virtuoso del violino (Uto Ughi) ha suonato brani di Bach e di Mendelssohn. Si trattava di un concerto di beneficenza. In fila con un sacco di gente, durante l'attesa dell'apertura delle porte, ho sentito una coppia fare questo ragionamento: «beneficenza a parte, per che cosa abbiamo pagato i soldi del biglietto? Qui ci vendono del fumo. Tutto sommato che cosa rimane di tangibile dopo aver ascoltato il concerto? Niente. E' solo fumo. Bisognerebbe, se non ci fosse la beneficenza di mezzo, farci ridare i soldi più tardi». Il ragionamento veniva fatto con serietà, non per scherzo. Le persone che dicevano quelle cose erano adulte, all'apparenza istruite e, giudicando da particolari inequivocabili, finanziariamente dotate. Ho pensato, con un brivido, al motivo per cui quell'uomo e quella donna erano lì. A come le frequentazioni scolastiche e universitarie nulla possano su quella idea sottoculturale, ormai di massa, che ha agito al punto da nientificare e rendere pressoché insensato tutto ciò che non abbia una consistenza tangibile, materica, segnando pure la fine della borghesia come elemento sociale evoluto. Dando spazio ad una nuova società opulenta e barbarica, istruita e cinica, anestetizzata e disumana.
Qualcuno potrebbe dire che in fondo quello era solo il discorso di due idioti. E' vero. Ma dietro quell'idiozia si nasconde qualcosa di peggio. L'essere incapaci di considerare l'esperienza estetica come fondamentale per l'umanità equivale ad essere già sul punto di abbandonare quanto di umano c'è nell'uomo. Io non so se quei due, o gli altri che pur non esprimendo a parole questo concetto considerano l'arte qualcosa di inutile, abbiano coscienza di questo fatto. A giudicare dall'aria che tira nella "cultura dominante" temo che non ne abbiano affatto. D'altronde quante volte ci è capitato di sentire i nostri politici parlare di arte e di cultura? Essi di solito, nei loro discorsi, la considerano importante ai fini sociali, occupazionali, terapeutici, ma mai come fine in sé stessa (non si giustificherebbero le ingenti spese). Bisognerebbe insegnare a costoro (e a quelli che professano, ad esempio, il verbo dello studio utile e non dell'utile studio), che l'arte è inessenziale e, proprio per questo, e per nessun altro motivo, è confacente all'uomo. Che il giorno in cui perdessimo definitivamente la capacità di pensare e di capire l'arte e questa sua peculiarità avremmo compiuto il più grave dei crimini contro l'umanità e fatto il passo definitivo verso la creazione di un mondo di mostri.