sabato 2 novembre 2013

Lame rosse

16 agosto 2008

"Ducunt volentem fata, nolentem trahunt"
Seneca, Epist, 107, 10.

Ed eccole, finalmente, sulla sommità del canalone di ghiaia bianca, stagliarsi improvvise le guglie improbabili delle lame rosse. Cesellate in migliaia di anni di erosione e di lavorìo delle acque e del vento. Sembrano piantate lì da un mago burlone che ha voluto incistare nello spazio boschivo consueto e familiare delle nostre montagne un frammento di terra spostato da luoghi lontani ed esotici, monoliti anatolici o dune sahariane.
Opportunamente nascoste allo schiamazzo ferragostano che aggroviglia masse umane qualche centinaio di metri più a valle, e che da lassù più non si ode, non sono certo inaccessibili, ma neppure alla portata di chi non voglia render loro un giusto tributo in fatica e sudore.
Me ne sono accorto alla prima rampa del sentiero che dalla diga del lago di Fiastra si inerpica verso l'alto. Una salita che da ragazzino avrei affrontato spavaldamente, quasi di corsa, e che ora invece mi ha presentato il conto spezzandomi il fiato e mostrando impietosamente il mio "fuori allenamento".
Comunque, stretti i denti e superato l'immediato empasse, le gambe hanno cominciato via via a carburare, gli scarponi a mordere il terreno con più forza, i muscoli a sciogliersi e le piante dei piedi ad abituarsi al fondo pietroso del percorso. Un po' più di un'ora di cammino, neppure troppo aspro, per giungere al canalone. Una lingua sassosa bianca e scoscesa sulla cui sommità ecco apparire le guglie rosse.
E ti chiedi come sia possibile che stiano lì, enormi e fragili, che ti sembra di poterle sbriciolare con un semplice cucchiaio, che ti sembra che alla prossima pioggia possano scomparire in una colata di fanghiglia rosso arancio. 
E ti chiedi quale sia la forza che permette loro di sfidare il vento e il tempo, di resistere caparbie in barba alla furia degli elementi.
Poiché, razionalmente, non potrebbero esistere. La materia di cui sono fatte è inconsistente, un agglomerato friabile di pietrisco sottile e polvere rossiccia che forma un castello dalle torri di sabbia alte decine di metri che sembra in ogni istante pronto a dissolversi per sempre nell'informe. 
Pure le lame rosse permangono in quel canalone da tempo immemorabile.
Nella loro immobilità silenziosa e arcana è forse nascosta una forza che per essere scorta pretende un punto di vista diverso e faticoso.  
Forse quelle forme, lungi dal vivere per sfida, esistono proprio perché in perfetto accordo con quella pioggia e quelle correnti che sfiorandone, carezzandone le delicate figure e imprimendo in loro quelle eleganti e ardite volute, non le distruggono.  Esse, forse, sono così perché così vuole il vento. Esistono nel loro tempo, infinitamente più lungo, dilatato, del nostro - cui ci è dato tuttavia il privilegio di scorgerle - apparentemente immobili e ieratiche ma invece in incessante trasformazione. 
Due mondi opposti si scrutano quando un uomo affaticato, come lo sono stato io ieri, giunge al cospetto di quelle sculture metafisiche. Il nostro mondo di uomini, alla continua ricerca di un posto in una natura alla quale, per tracotanza o idiozia, sentiamo di non appartenere del tutto, e il mondo delle cose docili al loro destino, perfettamente aderenti al volere della natura sì da farsi opere d'arte del vento e delle acque.
Due mondi e due tempi, incommensurabili e un'unica esistenza dalle forme effimere e  cangianti. Mi risuonano alla mente le parole gigantesche di Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell’aria, in aria sottile. E, come l’edificio senza basi di questa visione, anche gli alti torrioni incoronati di nuvole, e i sontuosi palazzi, ed i templi solenni, e questo stesso globo immenso, con le inerenti sostanze, dovranno dissolversi. E, come l’irreale spettacolo appena svanito, svaniranno senza lasciare traccia di sé. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno»1
Al ritorno verso casa la luna, ignara, squarciando le nubi che veloci transitavano sul mare, mostrava il suo sguardo indifferente. Era come quello delle fragili lame di pietrisco rosso che sanno che l'unica libertà consiste nel consentire che il destino compia il suo ineffabile corso, nel lasciarsi modellare da esso e farsi così, nel tempo che ci è concesso, opere d'arte.


1) W.Shakespeare. La Tempesta, atto IV°, sc. I



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