giovedì 29 giugno 2023

La guerra

Del tempo lontano in cui le estati erano lunghe tanto da non finire mai la mente ritiene soltanto brandelli e sprazzi di ricordi. Situazioni, cose e persone che ciclicamente tornano ad abitare i pensieri nella notte. Ombre ostinate e benigne che stanno lì come a ricordarci che davvero siamo fatti della stessa materia dei sogni. In quelle estati antiche e quasi mitologiche cerimoniale pressoché quotidiano era il fare la spesa. La qual cosa per me si sostanziava (visto che il concetto di supermercato non era ancora troppo familiare) in un rituale passaggio che attraversava tre negozi identificati direttamente con il nome dei commercianti loro proprietari. Per me fare la spesa voleva dire quindi passare da Nadia (frutta), da Giulia (macelleria) e da Fiore (bazar con tutto il resto di quanto potesse servire). Tutti sulla stessa via, a pochissima distanza tra di loro. Procedendo dalla mia direzione Nadia veniva per prima, Fiore e Giulia, praticamente l'uno di fronte all'altra, potevano essere affrontati indifferentemente prima l'uno o prima l'altra a seconda della dimensione della fila che si vedeva. Ma la prassi era di andare prima da Giulia e poi, per ultimo, da Fiore che era famosissimo per la cura estrema, la minuziosità che metteva nel servire le persone, cosa apprezzabilissima ma che faceva di lui il negoziante certamente più lento di tutti e a volte addirittura esasperante. Un milione di cose potrei scrivere sugli incontri quotidiani con queste figure che in qualche modo facevano parte di una specie di parentado acquisito, vista l'assiduità con cui ci si frequentava e forse un giorno lo farò. Oggi però voglio soffermarmi su una persona che era al margine di tutto questo. Spesso stava seduto fuori dal negozio di Nadia, la fruttivendola. Coppola in testa, occhiali scuri, baffi e un'espressione eternamente perduta. Guardava l'altro lato della strada come se ci fosse, di là, un orizzonte infinito invece del muretto azzurrino e scrostato della palazzina di fronte. Era, dicevano, o io ho sempre pensato che fosse, il padre di Nadia. Non so niente o quasi di lui. So solo che ogni volta che passavo, insieme a mio fratello più piccolo, dal marciapiede dove lui era seduto, ci fermava e poi, guardandoci con attenzione, scandiva: "Andrea … e Marco", indicandoci. E quando gli dicevo che sì, si era ricordato bene, si apriva ad un sorriso che illuminava per un istante quel viso dall'espressione sempre uguale. Ogni mattina noi passavamo di lì e questo episodio si ripeteva identico. "Andrea … e Marco". Niente altro. Noi lo sapevamo e per tenerezza passavamo apposta da lui, così che ci vedesse e potesse fermarci e dirci: "Andrea … e Marco, vero?". Parlava poco, quasi per niente. Solo qualche volta diceva, riusciva a dire, qualcosa di più. "Io sono stupido", disse un giorno, con un'espressione che non posso dimenticare. "Prima non ero così… la guerra… e adesso sono stupido" e poi, subito dopo: "Andrea … e Marco". Sì, ti sei ricordato bene. Ce l'hai fatta ancora una volta. E il sorriso che faceva ti apriva il cuore. E ti veniva di fargli una carezza, a quell'uomo grande e grosso, con la coppola, i baffi e gli occhiali color marrone scuro. Ecco. Io la guerra l'ho conosciuta negli occhi di quell'uomo di cui non so nulla o quasi. L'ho vista nell'espressione perduta di chi ha vissuto cose che la mente si rifiuta di catalogare. Nello sguardo attonito rivolto a quel muretto scrostato dove, forse, rivedeva ciò che non si può immaginare. Ho visto quel che può fare ad un essere umano buono e tenero. L'ho vista. E ne ho avuto orrore.