giovedì 15 agosto 2013

Prima domenica di luglio

Questo testo è stato scritto il 03 luglio 2007

Prima domenica di luglio. Le spiagge presto saranno affollate dalla consueta, chiassosa, moltitudine di bagnanti. Io e la mia compagna (che è mia moglie, ma mi piace di più chiamare così, con più tenerezza), come è nostro solito, siamo partiti di primo pomeriggio e ci siamo diretti dalla parte opposta alla lunga fila di auto che, docilmente incolonnate, si dirigono verso i lidi marini stipate di ragazzi/ragazze/asciugamani/ciabatte/slip/boxer/. Quando facciamo così non partiamo quasi mai con una meta precisa. Lasciamo tutto, quasi sempre, al caso, alla decisione istantanea (prendo questa strada? O l'altra? Ho preso questa!). Con il timone, comunque, puntato sull'entroterra. Luogo di borghi, paesi quasi metafisici, arroccati su guglie improbabili o stancamente raggomitolati su colline come gatti addormentati e silenziosi. Villaggi prosciugati, nei quali, di questi tempi, quasi non si vede anima viva e che sembrano piombati in una sorta di stasi spazio temporale, come immobilizzati da una forza occulta.
Più volte in questi viaggi nei nostri vicini deserti abbiamo fatto incontri speciali.
Come quel giorno in cui, per caso, sono arrivato a "Macchie", una località (dovrei dire "paese" ma ci vivono dieci persone, forse, in tutto) dove ero stato da bambino in uno di quei campeggi estivi parrocchiali al cui confronto un campo di addestramento militare sembra quasi di lusso.
Sono arrivato a Macchie, dunque, e mentre stavo mostrando a mia moglie il campo (praticamente immutato da quasi trenta anni) dove avevamo piantato, allora, le tende, passa un contadino del luogo. Ci salutiamo, si ferma a parlare (è questa una cosa che si ripete spesso in questi luoghi). Gli dico che ero stato lì da bambino, e lui mi fa: "Sì, certo, eravate di Loreto... no?" Io, un po' stupito annuisco, lui comincia a dire che sì, si ricorda di noi, di tutte quelle tende arancioni, del frate secco e di quel professore un po' grasso che ci accompagnavano, di quella volta che un bambino si era sentito male e di come poi aveva dovuto lasciare il campeggio, si ricordava anche le escursioni che avevamo fatto sul "passo cattivo", sul monte bove, di come la mattina eravamo incolonnati davanti alla fonte, in fila, per lavarci i denti con l'acqua gelata. Io allibisco; è come se fossi tornato, per un istante indietro nel tempo. Quanti eventi avevo sepolto del tutto, finché quell'uomo, sconosciuto, non me li ha fatti ritornare alla memoria, di colpo, tutti insieme, insieme agli odori, alle sensazioni, agli sguardi. Trenta anni dopo quel contadino aveva tutto in mente, con un dettaglio impressionante. Ora che lo guardo bene, forse, mi ricordo anche di lui.
Un'altra volta andiamo a Caldarola, un paese che ho visitato spesso. C'è un castello, un bel teatro, dove qualche anno fa ho portato uno spettacolo, niente di nuovo dunque, mi aspetto la solita tranquilla passeggiata. Ma non ho fatto i conti con una novità. Vittorio Sgarbi ha organizzato, proprio a Caldarola, una grande mostra dedicata a Simone De Magistris, con pubblicità a tappeto, cartelloni ovunque, da Rimini a Milano. Il paese è irriconoscibile. Plotoni di turisti si accalcano dappertutto, automobili parcheggiate in ogni angolo. Facciamo due volte il giro, niente, non un posto per parcheggiare, un inferno.
Ce ne andiamo e ripieghiamo su un paesino vicino che non abbiamo mai visitato: Belforte del Chienti. Arriviamo in cima al picco dove è arroccato Belforte. Naturalmente non c'è nessuno: una piccola piazza, il palazzo municipale a sinistra, a destra una chiesa, la porta chiusa. Guardiamo un po' il panorama dal balcone della piazza, scatto qualche foto. Stiamo per andarcene, quando incrociamo un omino appena sbucato dalla porta della "Pro Loco". Ci chiede se siamo stati a Caldarola. Rispondo che sì, ci siamo stati, ma c'era troppa confusione e siamo venuti via. Si ferma un attimo poi ci dice: "aspettate un istante, ve la faccio vedere io una cosa speciale". Torna alla Pro Loco, prende un mazzo di chiavi e ci accompagna alla chiesa sulla destra. Apre il portone, ci dice di entrare, di aspettare un momento che deve accendere le luci. Si accendono le luci e... lo stupore ci coglie come un lampo, rimaniamo senza parole. Davanti a noi si erge un gigantesco polittico, una pala d'altare di straordinaria fattura. Deve essere alta almeno cinque metri. "E' uno dei pochissimi polittici originali e completi del '400", ci dice l'uomo. "E' stato restaurato recentemenbte dalla sopraintendenza di Urbino. Si tratta di un capolavoro, è di Giovanni Boccati".
Mi guardo intorno, la chiesa è buia, il silenzio è assoluto. Scatto alcune foto. Non siamo riusciti a quantificare il tempo che abbiamo passato davanti a quel dipinto, che è lì da quasi seicento anni, in silenzio, con le sue figure di santi ieratici, i colori quasi violenti, le foglie d'oro che coprono ogni angolo della struttura.
Davanti all'imponenza di questo capolavoro celato, incurante, nella sua gloriosa solitudine, della deportazione turistica di massa che l'intelligenza mercantile sta realizzando soltanto qualche chilometro più a valle.
Anche oggi, prima domenica di luglio, abbiamo visitato un paese. Una Matelica semivuota, dove abbiamo incontrato l'ennesima persona che, incrociando i nostri sguardi, ci ha parlato, e, senza essere una guida autorizzata da nessuno, ci ha spiegato la storia della chiesa cattedrale, invitandoci poi a visitare due chiesette fuori mano, nascoste, dentro le quali abbiamo trovato ancora opere d'arte di fattura straordinaria (un trittico del '400, meraviglioso, un enorme quadro di De Magistris, che non è stato possibile trasferire alla famosa mostra, ancora aperta, perché troppo grande).
Tornando a casa, ho pensato alla poesia di Pasolini che recita: "Io sono una forza del Passato / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli [...]".
Mi sono chiesto se la nostra forza antica non stia davvero riposta in ciò che rifiutiamo, che non possiamo più comprendere, che abbandoniamo. Nello stupore dal quale non riusciamo più a farci cogliere.
La strada davanti a noi è vuota, mentre il sole, piano, scende alle nostre spalle e proietta ombre sempre più lunghe. Nell'altra corsia, in una interminabile fila di automobili incolonnate, stipate di ragazzi/ragazze/ asciugamani/ciabatte/slip/boxer/, i vacanzieri tornano, sfatti, a casa, dopo una lunga giornata al mare.



Il polittico di Belforte del Chienti

Notizie: www.polittico.belforte.sinp.net/

1 commento:

  1. Penso che sì, la nostra forza è riposta in ciò che rifiutiamo,che rifiutiamo di riconoscere e comprendere, ed accettare...
    Generazioni di senza radici.
    "Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta."

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